La Conoscenza umana e le sue origini oscure

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Dialogo tra Platone e Aristotele

di Cosimo Maggio

Non lo vedeva da più di un mese.

Preoccupato, si recò presso il domicilio dell’amico, dall’altro lato della città, e con manifesto disappunto venne a sapere che l’altro s’era recato in villeggiatura, al mare, senza averlo avvisato. Platone, su tutte le furie, partì anch’egli, ché già sapeva dove trovarlo.

Lo raggiunse che era sera, al crepuscolo, e lo scoperse seduto sulla battigia intento a scrivere con un legnetto sulla sabbia, mentre le onde glieli cassavano i segni che faceva, a ripetizione.

– “Eccoti dov’eri finito”, si gustò lo scritto che veniva depennato dal mare, che operava come una botta di spugna fa su una superficie sporca. “Per fortuna che le tue idee ti stanno in testa a prescindere, altrimenti… non ne rimarrebbe nulla, visto che il mare te le cancella ogni volta”, lo disse in maniera sarcastica, quasi a voler stuzzicare l’amico.

– “Non c’è bisogno che mi stiano già dentro, le idee. Esse vengono fuori tutte le volte che scrivo”, alzò gli occhi e gli sorrise. Rivolse lo sguardo verso l’orizzonte: un rosso accecante aveva colorato il tutto, mentre la dritta luce del faro posto in cima ad uno scoglio iniziò a roteare intorno, puntando verso il largo. “Ben arrivato, ti aspettavo”, poi, appoggiandosi all’altro, si sollevò da terra e si sgrullò di dosso la sabbia come un cane fa dell’acqua quando è zuppo. “Il mio pensiero nasce dalla continua esperienza che faccio, non è innato come dici tu”. I due si avviarono lungo la spiaggia.

– “Guarda, la mente è come quel faro che illumina tutto, una volta sola, ripercorso il giro: quando il tutto non si illumina da solo ma preesiste comunque al faro, allora la sua luce, ogni volta che lo tocca, permette che quel tutto sia interpretabile”, lo disse tutto d’un fiato. Fece uno starnuto, e si pulì il naso con la manica della camicia. “Le tue nozioni, la tua conoscenza, stanno già dentro di te. La tua ragione, poi, pensa e comprende la realtà, perché questa è incastonata in categorie e principi propri”, con l’andatura s’era fatto avanti nel tragitto, e per questo rallentò e si voltò. Aristotele era attardato, e non sembrava seguirlo. “Senti quello che dico?”. Platone sbuffò: “non c’è differenza tra parlate a te o al muro, questa è la verità”.

Aristotele gli sorrise: “Caro amico mio, ti sbagli due volte, oggi: non solo ho ascoltato con attenzione le tue parole, ma anche ti svelo che il mondo lo si conosce solo con l’esperienza sensibile, acquisendo i dati, rielaborandoli, ragionandoci sopra, e tutto attraverso i nostri sensi. Ecco, cosa abbiamo di innato: i sensi, non i pensieri già belli e fatti, come dici tu. È dalla raccolta e analisi delle informazioni esterne che noi astraiamo i concetti universali. La conoscenza umana non è né indipendente dall’esperienza, né è anteriore ad essa”, accelerò il passo e lo raggiunse.

– “No, non è così. Le idee non derivano dall’oggetto, ma costituiscono l’oggetto che la tua mente vede; l’esperienza sensibile, invece, è una “visione del corpo” che fa della realtà una copia imperfetta e sbiadita delle idee: i dati empirici, quelli che dici tu, servono alla mente solo per ricordare i paradigmi delle cose, le loro forme immateriali, innate, presenti da sempre”, prese un fazzoletto dalla tasca e si pulì il naso meglio. “La conoscenza della realtà si ha attraverso la visione che la nostra mente ha di ciò che è esterno ha noi, e ciò lo cogli con la ragione (il Logos) e nella misura in cui questa riesce a liberarsi e ad astrarsi dai sensi”.

– “Sono solo le nostre facoltà conoscitive ad essere innate. Come puoi aver preso una simile cantonata!”, sospirò chiudendo gli occhi. “Le capacità di vedere, toccare, sentire sono innate; ma gli oggetti, in potenza percepibili, diventano visti, toccati, odorati solo quando li vediamo, tocchiamo, odoriamo… diventano, insomma, oggetti conosciuti solo quando ne facciamo esperienza. Ma prima dell’esperienza sensibile la mente umana non conosce nulla: è come tabula rasa. Tutta la conoscenza umana inizia proprio con l’esperienza dei sensi”.

Platone fece spallucce. Si girò verso di lui e gli poggiò una mano sulla spalla: “Con te non si può proprio disquisire, sei un testone e non ti si può far cambiare idea”. Poi, con un’espressione interrogativa scorse che l’altro trainava qualcosa dalla scia lasciata sulla sabbia.

Aristotele si trascinava dietro una sacca di tela. L’aprì e ne tirò fuori un tocco di pane che offrì all’amico.

Platone spalancò gli occhi incredulo, e digrignò i denti: “Mi stai offrendo la cena, per caso? Spero che tu abbia qualcos’altro di meglio da farmi mangiare stasera”.

Aristotele scoppiò a ridere. “Tranquillo, ti porto in una trattoria dove le linguine allo scoglio fanno resuscitate i tuoi innati sensi ormai defunti”.

[Liberamente tratto da: Abbagnano N., Fornero G. “Filosofia. La ricerca del pensiero“, vol. 1a, Paravia-Pearson]

Caso o Scopo? La depressione di un orologiaio “intelligente” e la soluzione di un orologiaio “cieco”

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Dialogo tra Democrito e Platone

di Cosimo Maggio

Quando irruppe dentro, lo trovò sdraiato sul letto che fissava inerme il soffitto. Si guardò intorno, scosse la testa e con un fazzoletto alla bocca si diresse risoluto verso la finestra. Quando la aprì, un alito veloce di vento fresco conquistò la stanza, facendo svolazzare tende, fogli e polvere. Democrito ricominciò a respirare. Poi, fissò l’altro, e risoluto: “Ora mi spieghi che stai combinando? Il tuo servo mi ha detto che sono cinque giorni che non esci di casa: non mangi, non ti lavi, non apri la tua bottega; i tuoi clienti si lamentano, e rivogliono i loro orologi e i loro soldi; come pensi di andare avanti così?”; al lato della porta c’era un tavolino con la cena della sera precedente intatta. “Dammi una motivazione valida di questo tuo insensato comportamento”.

        E con fievole voce: “Motivazione? Sbagli la domanda, amico mio: non chiederti la causa; pensa allo scopo, invece; chiediti: a quale scopo”, Platone si sollevò a stento, ma ricadde giù pesantemente sul letto.

        “Tu vaneggi: mi stai dicendo che questo tuo lascivo modo di consumarti dipende dal fine che hai, ma non dalla causa che ti ha portato alla depressione? Sei depresso, questo si vede; ma non so per quale motivo”, trascinò una sedia davanti al letto. Si piazzò lì, benevolo. “Allora, dimmi: ascolto con trepidazione”.

        “Ti ripeto: non c’è una vera causa intermedia; c’è solo quella finale. Tutto ha uno scopo”, questa volta fece leva sulle tremolanti braccia; riuscì a tirarsi su.

        Democrito si mostrò spazientito: “Non mi prendere in giro; nulla avviene senza motivo, ma tutto secondo una ragione e con necessità. Il tuo scopo finale è solo la conclusione di una sequenza meccanica di cause e di effetti, che auto-organizzandosi si evolvono dinamicamente verso un nuovo equilibrio instabile, e tutto ricomincia”. L’altro, intanto, si era rigirato e seduto sul letto, lentamente, di fronte a lui.

        “Non è vero: nulla si auto-regola. Credimi. Abbiamo bisogno di un intervento esterno che indirizzi le cose. Tu sei un orologiaio come me, e sai che, per il tuo fine ultimo, devi progettare gli ingranaggi, gestire le molle, garantire le interconnessioni, altrimenti… altrimenti, l’orologio non funziona: gli orologi hanno bisogno di un orologiaio intelligente, non cieco, come dici tu. Hai capito quello che intendo? L’orologio risponde a te, che ne sei il costruttore. La realtà non è cieca, non si evolve nel caos; agisce secondo la coscienza del suo creatore… il mio stato pietoso risponde alle necessità del progetto finale di chi guida le mie fila e orienta le mie azioni”, digrignò i denti e chiuse gli occhi. Sembrava che stesse soffrendo ma di un dolore dell’anima più che di un dolore fisico. “Amico mio, siamo fregati: non c’è speranza per la nostra libertà e indipendenza”, sospirò di un fiato pesante e disperato.

        “Praticamente ti stai suicidando coscientemente, e di cui non se ne capiscono i motivi, per uno strano scopo pensato e ideato a priori da un demiurgo illuminato che sta al di sopra della tua logica volontà e necessità di sopravvivere? Platone, che ti sei fumato? La tua azione di non mangiare ha un effetto non logico; il tuo inesorabile e spietato fine cozza contro la positiva esigenza di reazione: non se ne vede un ragionevole traguardo, l’obiettivo finale, nella tua argomentazione. E tu dici che esiste un’entità esterna a te che avrebbe già deciso che tu avresti fatto una brutta fine? Guardati, farai una brutta fine”, sospirò. “Ebbene sì: là fuori, al di fuori della tua bottega di orologiaio intelligente, esiste solo un orologiaio cieco che lascia scorrere il tutto nel caos libero e senza scopo finale: nessuno progetta il tuo futuro, sappilo”. Si alzò, e con rabbia, afferrandolo per la giacchetta: “Io però ho la soluzione”.

        E Platone, alquanto impressionato da quell’inspiegabile e inaspettato atto: “E qual è la soluzione?”, lo disse sgranando gli occhi, un po’ perplesso.

        “Shopping, andiamo a fare shopping: il tuo orologiaio intelligente non l’avrebbe potuto prevedere questo”, se lo acchiappò di peso e se lo trascinò con forza fuori casa.

[Liberamente tratto da: Abbagnano N., Fornero G. “Filosofia. La ricerca del pensiero“, vol. 1a, Paravia-Pearson]