LE ASPETTATIVE NELLA TEORIA ECONOMICA

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Il pensiero economico da sempre ha valutato come fondamentale l’uso delle aspettative sia in riguardo al comportamento dei singoli individui sia per la formazione dei meccanismi dei mercati e dell’economia nella sua interezza. Malgrado ciò, esso nel corso dei decenni (dalla prima metà del novecento fino ai giorni nostri) non è mai riuscito a elaborare una teoria capace di spiegare la loro formazione, creando così i presupposti per basare il loro funzionamento su ipotesi ad hoc…

di Cosimo Maggio

Il progresso tecnico come “Factor Augmenting” nei modelli di teoria della crescita

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di Cosimo Maggio

INTRODUZIONE

L’introduzione del Progresso Tecnico nei modelli di crescita ha trovato, nel corso dei decenni, una serie di difficoltà dovute alla sua stessa natura di essere legato sia ai mutamenti tecnologici sia all’evoluzione dei processi produttivi, ma non all’equilibrio. I tentativi di inserirlo nella modellistica economica sono stati diversi, i più collegandolo ai diversi fattori produttivi, nella funzione di produzione, in modo tale che a parità di essi si ottenesse un più elevato livello di prodotto. Questo lavoro vuole ripercorrere, in maniera sintetica ma non esaustiva, le diverse forme più comunemente utilizzate in letteratura, concentrando l’attenzione sul Progresso Tecnico come Factor Augmenting.

DEFINIZIONI, CLASSIFICAZIONI E CONCETTI

In prima e parziale sintesi, proporremo il seguente schema [1] per lo studio e il raggruppamento della Progresso Tecnico nelle diverse forme presenti nella letteratura accademica.

Innanzitutto, abbiamo la distinzione tra Progresso Tecnico neutrale e non neutrale, nel senso di Harrod, nel senso di Hicks e nel senso di Solow, le cui differenze saranno oggetto di studio di questo lavoro. Il Progresso Tecnico può essere, inoltre, esogeno o endogeno: nel primo caso, è indipendente dal funzionamento del sistema economico (esso deriva da cause esterne ad esso, e viene considerato “come manna dal cielo”); nel secondo caso, deriva da cause interne al funzionamento del sistema economico: qui, la sua causa, il fattore che lo determina, può prendere diverse forme. Il Progresso Tecnico, ancora, può essere incorporato o non incorporato nello stock di capitale. Quindi, avremo un processo di apprendimento attraverso l’esperienza che accrescere la produttività di un impianto, oppure no. Ciò che caratterizza la differenza sta nella distinzione fra Progresso Tecnico e l’intero investimento in beni capitali. Se invece si vuole mettere in risalto il fatto che diverse “annate” (Vintages) di macchine incorporano generalmente diverse tecnologie, allora si distinguerà l’impatto del progresso tecnico in base all’età delle macchine utilizzate. Infine, c’è la distinzione tra Progresso Tecnico di processo (le innovazioni riguardano il processo produttivo) e il Progresso Tecnico di prodotto (se riguardano nuovi prodotti). È interessante, in questo ultimo tipo di classificazione, la distinzione delle tre fasi di un processo economico: l’invenzione, l’innovazione e la produzione di massa. Nel continuo di questo lavoro, ci occuperemo del primo tipo di classificazione, cioè analizzeremo il Progresso Tecnico come “Factor Augmenting”, il “fattore che incrementa”, rimandando alla letteratura specializzata la rimanente parte delle definizioni date.

IL PROGRESSO TECNICO COME “FACTOR AUGMENTING”

Una espressione [2] ampiamente utilizzata in letteratura nel definire il Progresso Tecnico è Factor Augmenting. Secondo questa definizione, il Progresso Tecnico può essere interpretato come se la quantità dei fattori di produzione fosse stata “aumentata”, anche se nella realtà è rimasta costante. In questa formulazione, la funzione di produzione aggregata è scritta nel seguente modo

Y = F[A(t)·K, B(t)·L]

dove A(t)·K e B(t)·L rappresentano rispettivamente lo “stock di capitale misurato in unità di efficienza” e la “forza di lavoro misurata in unità di efficienza”. Se

A(t) = dA/dt > 0 e B(t) = 1

il Progresso Tecnico è definito Capital Augmenting. Se

B(t) = dB/dt > 0 e A(t) = 1

il Progresso Tecnico è Labour Augmenting. Se

A(t) = dA/dt = dB/dt = B(t)

il Progresso Tecnico è nella stessa misura Capital and Labour Augmenting. È interessante osservare che questa rappresentazione non implica alcunché sulle cause o sulla fonte del miglioramento tecnologico. Per esempio, la rappresentazione del Progresso Tecnico come Labour Augmenting non implica che vi sia stato un mutamento nella qualità del lavoro, ma magari è dovuto a miglioramenti nei macchinari utilizzati. Inoltre, i modelli che più di altri hanno usufruito di questa rappresentazione sono stati i modelli di sviluppo neoclassici, prima di tipo esogeno e poi di tipo endogeno. Infine, nell’ipotesi di rendimenti costanti di scala, e contemporaneamente nel caso di Capital and Labour Augmenting, avremo

Y = A(t)·F[K, L].

IL PROGRESSO TECNICO “NEUTRALE” SECONDO HICKS

Secondo Hicks [3]:

• il Progresso Tecnico è Labour-Saving se, ad un certo rapporto capitale/lavoro, esso implica un miglioramento del rapporto tra la produttività marginale del capitale e quella del lavoro;

• inoltre, il Progresso Tecnico è Capital-Saving se, ad un certo rapporto capitale/lavoro, esso comporta una riduzione del rapporto tra produttività marginale del capitale e quella del lavoro;

• il Progresso Tecnico, infine, è neutrale se, ad un dato rapporto capitale/lavoro, esso comporta un rapporto invariato tra la produttività marginale del capitale e quella del lavoro.

La Hicks-neutral production functions [4] può essere scritta come

Y = A(t)·F[K, L]

Ora, poiché in condizioni di equilibrio competitivo, la produttività marginale del capitale, in un modello aggregato, è uguale al saggio di interesse, r, e la produttività marginale del lavoro è uguale al salario reale, w, e tenuto conto che nella classificazione di Hicks si tiene costante rapporto capitale/lavoro, potremmo anche dire che, secondo Hicks,

• il progresso tecnico è Labour-Saving se il rapporto tra le quote distributive del capitale e del lavoro è crescente;

• il progresso tecnico è Capital-Saving se il rapporto tra le quote distributive del capitale e del lavoro è decrescente;

• infine, il progresso tecnico neutrale se lascia invariato il rapporto tra le quote distributive.

Non è difficile rendersi conto che il progresso tecnico neutrale nel senso di Hicks ha la stessa natura del Progresso Tecnico Capital and labour Augmenting: infatti, per la definizione di Hicks le quote distributive devono rimanere invariate e deve rimanere invariato il rapporto capitale/lavoro; queste condizioni richiedono che il rapporto lavoro/prodotto e il rapporto capitale/prodotto diminuiscano nella stessa misura dato che la produttività marginale del lavoro e la produttività marginale del capitale aumentano nella stessa misura. Infine, bisogna osservare che la definizione del Progresso Tecnico secondo Hicks non è di grande aiuto all’interno della teoria neoclassica dello sviluppo economico. Infatti, nella teoria neoclassica dello sviluppo, uno spostamento verso l’alto della funzione di produzione pro capite racchiude in sé il passaggio ad un nuovo sentiero di sviluppo equilibrato, con un più elevato rapporto prodotto/lavoro e con un più elevato rapporto capitale/lavoro, mentre la definizione del Progresso Tecnico secondo Hicks è basata sul fatto che esso si ottenga avendo il medesimo rapporto capitale/lavoro; pertanto tale definizione non risulta utile ai modelli neoclassici dello sviluppo.

IL PROGRESSO TECNICO “NEUTRALE” SECONDO HARROD

Harrod [5] definisce neutrale un’innovazione che, ad un dato saggio di interesse mantenuto costante, non modifica il rapporto capitale/prodotto. Nell’ambito della teoria neoclassica, questa definizione è stata riformulata come “Progresso Tecnico neutrale nel senso di Harrod” quello che, per ogni dato valore del rapporto capitale/prodotto, lascia invariata la produttività marginale del capitale. Quindi,

• il progresso tecnico è neutrale nel senso di Harrod se lascia invariata la quota del reddito che va al capitale;

• il progresso tecnico è Labour-Saving nel senso di Harrod se, dato un certo rapporto capitale/prodotto, la quota distributiva che va al lavoro diminuisce, e aumenta quella del capitale;

• mentre è Capital-Saving nel senso di Harrod se, dato un certo rapporto capitale/prodotto, la quota distributiva che va al capitale diminuisce, e aumenta quella del lavoro.

Paragonando le due classificazioni del Progresso Tecnico viste finora, ambedue lo differenziano a seconda dei suoi effetti sulle quote distributive del reddito rispetto al lavoro e rispetto al capitale. La diversità sta nel fatto che nella definizione di Hicks si mantiene costante il rapporto capitale/lavoro, mentre in quella di Harrod si mantiene costante il rapporto capitale/prodotto. La Harrod-neutral production functions [6] può essere scritta come

Y = F[K, A(t)·L]

dalla quale forma è facile rendersi conto che il progresso tecnico neutrale secondo Harrod è equivalente ad un “Progresso Tecnico Labour-Augmenting”. Infatti, il progresso neutrale nel senso di Harrod richiede che il rapporto capitale/prodotto resti costante; ne consegue che il progresso tecnico deve manifestarsi con un aumento proporzionale ed eguale del prodotto per lavoratore e del capitale per lavoratore; e questo è proprio del Progresso Tecnico Labour-Augmenting di esplicitarsi esclusivamente attraverso un accrescimento della produttività del lavoro. Infine, bisogna osservare che l’unico tipo di Progresso Tecnico compatibile con lo sviluppo equilibrato di lungo periodo della teoria neoclassica è il quello Labour-Augmenting, ossia il “Progresso Tecnico neutrale in senso di Harrod”. Infatti, dato che, lungo il sentiero di sviluppo equilibrato neoclassico, il rapporto prodotto/capitale deve rimanere costante, ciò significa che il prodotto per lavoratore e il capitale per lavoratore devono entrambi crescere ad un saggio uguale è costante. E questo implica che la quota distributiva del capitale sia costante, e, ancora, questo richiede la costanza del saggio di interesse, il che corrisponde alla neutralità del Progresso Tecnico nel senso di Harrod.

IL PROGRESSO TECNICO “NEUTRALE” SECONDO SOLOW

Nell’articolo del 1957, Solow [7] esamina la possibilità di inserire nel suo modello del 1956 il progresso tecnico, partendo dall’ipotesi di Progresso Tecnico Hicks-neutral, con una funzione di produzione aggregata Cobb-Douglas: il progresso tecnico sarebbe dovuto essere modellizzato come un fattore moltiplicativo della funzione originaria, che aumenta il prodotto senza modificare il saggio marginale di sostituzione tecnica. Ma a differenza di Hicks, egli propone che, invece di rimanere invariato per un dato rapporto capitale/lavoro, il rapporto delle quote di input, (L·FL)/(K·FK), rimaneva invariato per un dato rapporto lavoro/prodotto. La Solow-neutral production functions può essere scritta come

Y = F[A(t)·K, L]

dalla quale forma è facile rendersi conto che il progresso tecnico neutrale secondo Solow è equivalente ad un “Progresso Tecnico Capital-Augmenting”, poiché un “miglioramento tecnologico aumenta la produzione nella stessa maniera di un incremento nello stock di capitale”.

Note

[1] Liberamente tratto da: Valli V. (1993), “Politica Economica. Teoria e politica dello sviluppo”, NIS. Vol.1.

[2] Tra gli altri, vedi: Musu I. (1980), “Teorie dello sviluppo economico”, ISEDI, par. 5.3, pag. 66.

[3] Cerca in: Hicks, J.R. (1964), “The Theory of wages”, London, Macmillan.

[4] Barro R. J., Sala-i-Martin X. (1998), “Economic Growth”, MIT press, par 1.2.10, pagg. 32 e seguenti.

[5] Harrod R. F. (1942), “Toward a dynamic Economics: some recent development of economic theory and their application to policy”, Macmillan. Ma anche: Harrod, R.F. (1961), The “Neutrality” of Improvements, Economic Journal, LXXI, 300-304.

[6] Barro R. J., Sala-i-Martin X. (1998), “Economic Growth”, MIT press, par 1.2.10, pag. 32 e seguenti.

[7] Solow R. M. (1957), “Technical Change and the Aggregate Production Function”, in “Review of Economics and Statistics”, august. Vedi anche: Solow, R.M. (1963), Capital Theory and the Rate of Return, Amsterdam.

[8] Solow R. M. (1956), “A Contribution to the Theory of Economic Growth”, in “Quarterly Journal of Economics, 70, february, 65-94.”

[9] Barro R. J., Sala-i-Martin X. (1998), “Economic Growth”, MIT press, par 1.2.10, pag. 32 e seguenti.

La coscienza e il suo primato

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di Cosimo Maggio

La Coscienza1 è il nucleo più segreto e sacrario dell’Uomo2; si manifesta3 continuamente4 al singolo come un giudizio5 eticamente dominante6 della ragione naturale7, pur non derivando da essa8, e nel decidere sull’agire decide per la “qualità” dell’agire9.

Essa sta all’individuo come luogo inviolabile10 nella sua unicità, luogo dove egli, interagendo in prima istanza su di sé, come un assoluto11, e poi volontariamente con l’esterno attraverso il confronto Io-Altro12, può decidere liberamente e responsabilmente13 di

  • verificare14 la consistenza delle norme regolatorie15, o valori etici, liberamente scelti16 tra i Valori Superiori Condivisi17;
  • valutare18 il perseguimento dei propri interessi materiali e spirituali alla luce dei valori etici prescelti, per poter stabilire se il “massimo Bene percepito per la propria persona” sia il “massimo Bene della Persona”19;
  • ammettere metodologie comportamentali attuative secondo coscienza e concepire risoluzioni eticamente rilevanti19bis;
  • prendere su di sé l’onere degli effetti ex-post degli atti compiuti, di quelli in itinere e di quelli futuri di cui non abbia ancora “coscienza”20.

        Quando si perseguono lessicograficamente21 i valori superiori dettati dalla coscienza, nei quali la Virtù Morale22 trova piena realizzazione e massima considerazione23, allora la coscienza prende la qualifica di Coscienza Morale.

        La coscienza, quindi, primeggia (il Primato della Coscienza) quando ogni decisione è presa secondo Coscienza Morale24.

NOTAZIONI E COMPLETAMENTI

        [1] La Coscienza si presenta e interagisce con l’uomo come un “modello efficiente” di giudizio e comportamento; “in potenza” è una qualità dell’anima, e come questa è innata: si rivela alla nascita come diritto “naturale” dell’individuo, e torna all’anima nel momento della morte di questo. All’individuo che prende coscienza di essa si rivela in diverse accezioni:

  • in senso Allocativo: la coscienza è un “luogo” [vedi nota 10];
  • in senso Valutativo: essa permette all’individuo di “valutare” [vedi nota 18] il proprio agire in maniera efficiente; e questo lo si ha quando le indicazioni da essa rivelate all’individuo sono impiegate correttamente per determinare il valore della propria azione;
  • in senso Tecnico-Operativo: è un insieme organizzato di procedure e regole che segnano la retta via da seguire;
  • in senso Informativo: informa l’individuo sugli esiti della sua azione [nota 20].

        [2] “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria” [Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), n. 1776; ma anche Gaudium et Spes, 16].

        [3] “La coscienza morale è un giudizio della ragione, mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto” [Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), n. 1778].

        [4] Nella propria quotidianità l’Uomo fa riferimento a due aspetti fondamentali della propria persona: la costante ricerca della Verità e il necessario bisogno di un Senso [Ruini C., Intervista su Dio, Mondadori,2012, pag.78]. La coscienza come nucleo più segreto e sacrario dell’individuo è predisposta alla valutazione della Verità nelle cose e al continuo domandarsi sul Senso della propria esistenza.

        [5] La cosiddetta voce della coscienza non è altro che un “giudizio della ragione”. H. Simon [Administrative behavior; a study of decision-making processes in administrative organization, New York, Macmillan Co., 1947] distingue due tipi di giudizi sull’agire umano: i giudizi di fatto (“descrizioni del mondo sensibile e del modo nel quale esso opera”, cioè valutazioni del modo di operare, sempre verificabili se siano vere o false) e i giudizi di valore (valutazioni inerenti ad uno stato di cose ritenuto desiderabile per il valore etico e ottativo presente, e che non è mai possibile qualificarle come vere o false poiché non esistono mezzi per farlo; queste valutazioni possono essere solo accettate o rifiutate). Secondo Simon, nell’agire umano ogni azione si manifesta in una duplice veste: è simultaneamente un fine dell’azione precedente e un mezzo per l’azione successiva. L’adeguatezza dei mezzi (necessari per esplicare l’azione successiva) è oggetto di giudizi di fatto, mentre la desiderabilità del fine è oggetto di giudizi di valore. L’individuo decide di compiere un’azione in quanto la giudica atta e necessaria al raggiungimento di un determinato fine, ma tale fine può essere a sua volta solo un mezzo per raggiungere un fine più ampio e remoto. Questo elemento di sincronia fa sì che in quanto mezzo, l’azione è soggetta a giudizi di fatto (oggettivi e generali) sulla sua idoneità a raggiungere un dato fine, ed in quanto fine è soggetta a giudizi di valore (soggettivi e specifici). Simon, quindi, per un giudizio più consono possibile, non ritiene sufficiente limitarsi a considerare i soli giudizi di fatto pertinenti all’efficacia dei mezzi; e allo stesso tempo, per giudicare correttamente un’azione sarebbe errato estromettere dalla valutazione i giudizi di valore sul fine che si intende raggiungere.

        [6] Quello secondo coscienza è il miglior giudizio che la mente possa elaborare tra tutti i possibili suoi giudizi, date le fondamenta (vedi “Valori Superiori Condivisi”, nota 17) su cui è costruita tale coscienza: è il giudizio individuale socialmente ottimo [non è possibile esprimere un giudizio migliore di questo, se non diverso, senza nel contempo ridurre la valutazione della sua rilevanza, (e questo lo si può fare solo “cambiando” la struttura di base, ancora i Valori Superiori Condivisi, su cui si fonda la coscienza)]. Ciò significa che ci sono tanti “giudizi ottimi” quanti sono i Valori Superiori Condivisi accettati dall’individuo: il migliore in assoluto è quello basato sul valore superiore Morale [vedi nota 15]. La “defezione” comportamentale da un giudizio socialmente ottimo implica sia “ritorsioni eticamente rilevanti” sull’auto-valutazione personale (in questo caso, l’individuo deve chiarire a sé stesso, auto-giustificandosi, il senso del proprio comportamento), sia “ritorsioni” sulle valutazioni socio-antropologiche da parte di altri (in quest’altro caso, l’individuo si trova a “difendersi” dal giudizio degli altri). La scelta simultanea “a priori” di seguire il giudizio socialmente ottimo secondo coscienza da parte di più individui comporta la realizzazione un “equilibrio di Nash” (eticamente la migliore scelta collettiva possibile), soprattutto alla luce dei posizionamenti successivi (giochi etici sequenziali): la coscienza diacronica della collettività deve essere l’espressione dell’aggregazione in tempi diversi delle coscienze sincroniche socialmente ottime degli individui. In questo modo, rimane prioritaria l’implicazione che la moltitudine non soffochi la coscienza dell’individuo, anche quella più critica, poiché la coscienza della moltitudine deriva (venendo fuori come associazione dinamica delle singole coscienze) da quella individuale.

        [7] Con il termine “ragione naturale” si intende l’esercizio della ragione da parte dell’uomo a prescindere dalla Rivelazione [cerca, Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae].

        [8] E’ la presunzione fatale hayekiana. L’individuo percepisce che tale capacità di giudizio derivi dalla ragione, quando quest’ultima “conosce” il giudizio un istante dopo l’interazione Coscienza-Io. La ragione è efficace nelle “variazioni”, ma non fa “selezione”. Inoltre, essa ha la capacità di “escludere ogni senso di autocoscienza nel processo di esecuzione di un compito difficile (leggi: non ordinario)” [Vernon L. Smith 2010, p.82 (opera cit.)]. La presunzione fatale comunque non esclude che “il lume naturale della ragione” possa conoscere con certezza, dall’esperienza concreta, “l’unico e vero Dio” [Per l’importanza della ragione naturale nella conoscenza di Dio cerca: Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae. Poi cerca, Concilio Vaticano I, Costituzione dogmatica Dei Filius sulla fede cattolica, 1870. Ma anche l’enciclica, Fide set Ratio, Giovanni Paolo II, 1998. E anche CCC, n°50]

        [9] E’ compito della ragione organizzare l’agire umano; è compito della coscienza qualificarlo secondo un “qualche” Valore Superiore (vedi nota 17).

        [10] La coscienza non è un luogo “fisico”, e neanche un luogo “mentale” (ad escluderne la possibile invenzione della mente). Qui “luogo” lo si intende come “ambiente” dove vengono accumulate (attraverso i meccanismi di condivisione e scambio) le proprietà Superiori dell’individuo, costituite da “valori”, “dotazioni” (leggi: talenti) e “conoscenze” che l’individuo scopre e/o riscopre con l’esperienza. “In questa caratterizzazione, le istituzioni [il termine “istituzione” si riferirà al linguaggio/messaggio, alle regole dello scambio di messaggi e di assunzione di obblighi “(pseudo)contrattuali” (…) o ad altri processi di decisione (co-decisione Coscienza-Io) (…)] sono pensate come algoritmi le cui regole del diritto di proprietà (vedi di seguito) definiscono i risultati [dell’interazione Coscienza-Io, (liberamente adattato dal redattore)], dati i messaggi [leggi: informazioni (liberamente adattato dal redattore)], mentre il comportamento degli agenti è rappresentato da algoritmi di decisione per la scelta dei messaggi, dati l’ambiente dell’agente e l’istituzione” [La razionalità nell’economia, Vernon L. Smith, 2010 p.77]. Qualificare la coscienza come un luogo inviolabile significa contrassegnarla come un diritto di proprietà. Con questo si vuole sottolineare che la coscienza è un diritto di proprietà “fatto valere dall’esterno” (un diritto naturale, o emergente, poiché gode “dell’universalità, spontaneità e valore di adattamento evoluzionistico nella reciprocità dei comportamenti: la reciprocità della natura umana è il fondamento della nostra unicità come creature sociali”). Essa, insomma, è una “garanzia” che permette alle azioni individuali di essere valutate e scelte entro i principi scanditi dalla coscienza. L’individuo può promuoversi sia come protagonista della violazione di tali linee guida sia esserne garante [tratto liberamente da: Vernon L. Smith La razionalità nell’economia, ibllibri, 2010].

        [11] Athos Turchi, docente di filosofia alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, dichiara “La coscienza è il luogo più sacro della persona. Luogo intoccabile e inaccessibile a tutti. (…) Lì l’uomo è un Assoluto” [“«Seguire la propria coscienza» non è una scusa per fare ciò che si vuole?”, intervista pubblicata su “Toscanaoggi.it”, del 24/01/2014].

        [12] Anche se l’uomo in-coscienza è un assoluto (e come assoluto dialoga con sé stesso), “Io-Altro” è la consapevolezza della propria non solitudine. L’interazione/confronto con esterno, che deriva dalla cognizione di non essere soli, si realizza o come dialogo Io-Dio (se credente, attraverso l’intercessione dello Spirito Santo: è in questo senso che si può interpretare il concetto di “coscienza creatrice” [vedi Chiavacci E. Teologia morale, vol 1, 2 ,3/1, 3/2, cittadella editrice]), ovvero come dialogo Io-Alter Ego senza la mediazione di un dio nel caso di mancata percezione di esso (ad esempio, se è ateo). Al di là della “scommessa” di Pascal, la coscienza si presenta, quindi, come il luogo dove l’individuo può incontrare Dio, se lo desidera (è una delle possibili scelte) e/o se Dio gli si rivela. Vale, cioè, il Deus absconditus: “non è vero che tutto ci scopra Dio e non è vero che tutto ci nasconda Dio; è vero però l’uno e l’altro insieme, e cioè che Egli si nasconde a coloro che lo tentano e si svela a coloro che lo cercano” (Pascal B., Pensieri, Opuscoli, Lettere, Rusconi, Milano 1997). Ruini scrive nel suo Intervista su Dio: “Le vie che possono condurci a Dio sono molteplici e spesso imprevedibili: si inseriscono infatti nella situazione e nell’esperienza di vita di ciascuno di noi. Anzi, variano in concreto nella misura in cui è diverso, personale e unico il rapporto che ciascuno di noi ha o può avere con Dio: da un punto di vista credente, non si tratta soltanto di un nostro rapporto, o non rapporto, con Dio, ma anche e anzitutto del rapporto che Dio stesso instaura con ciascuno di noi.” Seguendo sempre Ruini, le molteplici strade dell’incontro con Dio possono essere raggruppate in due tipi: se è una propria ricerca di Dio, parliamo di “via dal basso” (da noi a Dio: solo se Dio è la fonte della nostra esistenza); se “il cercarsi” è una iniziativa di Dio, allora parliamo di “via dall’alto” (Dio manifesta/rivela sé stesso a noi: rivelazione attraverso la creazione) [vedi Ruini C., Intervista su Dio, Mondadori, 2012, pp.92-94; ma anche Rahner K., Theos nel Nuovo Testamento, in Saggi teologici, ed. Paoline, 1965 pp. 467-505]. In questa duplice strada, distinguiamo due modi per conoscere Dio, divenendo fondamentale la dinamica tra fede e ragione: la conoscenza “a priori” (che è una conoscenza immediata e intuitiva) e quella “a posteriori” (si cerca di risalire dalla realtà di cui abbiamo esperienza alla realtà originaria di Dio), e questo attraverso tre possibili percorsi (l’essere, il vero e il bene) [ancora Ruini C., op cit pp.99-104]. “Un primo chiarimento riguarda la necessaria distinzione fra le due espressioni conoscenza naturale di Dio (attraverso la ragione naturale, ndr) e rivelazione di Dio nel creato. Tali dizioni sono evidentemente collegate fra loro, ma risultano formalmente distinguibili. La prima è un itinerario filosofico che accede ad una immagine dell’Assoluto dipendente dallo specifico cammino prescelto (metafisico, fenomenologico, cosmologico, antropologico, ecc.); la seconda è una riflessione teologica che discende da una immagine di Dio consegnata, nel suo insieme, dal dato rivelato. [tratto da: Tanzella-Nitti G., La dinamica di fede e ragione nella conoscenza naturale di Dio, in Larrey P. (a cura di), “Per una filosofia del Senso Comune. Studi in onore di Antonio Livi”, Italianova, Milano 2009, 111-127.]

        [13] Qui distinguiamo tra l’atto di decisione di scegliere oppure di non-scegliere, e l’atto di scelta. Nel primo caso, l’individuo può decidere di non-scegliere (è il non-decidere affatto), cioè di posizionarsi al di fuori della “disputa” come un puro agnostico [“In generale il termine agnostico (dal greco antico ἀ- (a-), “senza”, e γνῶσις (gnōsis), “sapere”, “conoscenza”) indica un atteggiamento concettuale con cui si sospende il giudizio rispetto a un problema, poiché non se ne ha (o non se ne può avere) sufficiente conoscenza” [fonte Wikipedia], ovvero non se ne vuole avere (di conoscenza)]. Se l’individuo decidesse di scegliere, allora dovrà precisare a sé stesso il livello di partecipazione agli elementi in gioco (“parteggiare” totalmente per uno e per nulla per l’altro, o un po’ e un po’): è il gioco degli schieramenti (anche “diplomatici”) e delle condivisioni ragionate.

        [14] E’ il cosiddetto ruolo deduttivo della coscienza: conoscere, riconoscere e applicare alle varie situazioni e scelte norme ammesse come validamente etiche [cerca “Quale coscienza morale?”, mons. Raffaello Martinelli, Primicerio della basilica dei Santi Ambrogio e Carlo in Roma].

        [15] Verificare la consistenza delle norme che regolamentano la coscienza significa “chiarire e dichiarare” a sé stessi le qualità dei princìpi virtuosi (o semplicemente “le Virtù”) che si poggiano sull’ipotesi di reciprocità univoca [ovvero, l’attenzione agli altri e l’avversione a tutto ciò che sa di “ineguaglianza”, dovuto ad un comportamento auto-interessato; la “reciprocità univoca” è il comportamento Etero-Disinteressato: tratta il prossimo tuo come vorresti che tu fossi trattato, se non meglio, a prescindere di come sei realmente trattato] e su cui si vuole che si fondi la propria esistenza, accettandole non più come una pluralità di verità personali ma come Unica Verità Assoluta. Tali Virtù possono essere definite Consistenti di una Unica Verità Assoluta quando reggendosi sulla reciprocità univoca godono delle seguenti proprietà: Veridicità, Certezza, Rettitudine, Libertà, virtù ben Formate e pienamente Informate. La regolamentazione della coscienza attraverso le Virtù Consistenti la rendono Consistente anch’essa. E l’unica coscienza Consistente di Unica Verità Assoluta è quella Morale [Per la specificazione delle qui esposte proprietà vedi: “Quale coscienza morale?”, mons. Raffaello Martinelli, Primicerio della basilica dei Santi Ambrogio e Carlo in Roma] [vedi anche: “Catechismo della Chiesa Cattolica”, nn 1776-1802] [per l’Ipotesi di Reciprocità vedi Preference, Property Rights, and Anonymity in Bargaining Games, Hoffman et altri (1994)].

        [16] E’ il dono del Libero Arbitrio: l’uomo è “(…) l’unico arbitro di sé e del suo destino. Per il fatto che (nella coscienza) Dio non intervenga significa che in un certo senso la persona ha «diritto» di decidere e fare quello che gli pare.”, [ancora Athos Turchi, già citato].

        [17] I “Valori Superiori Condivisi” (una sorta di legge naturale che non è l’individuo a darsi [cerca Catechismo della Chiesa Cattolica, n 1776], ma gli è preesistente) sono quelli che l’Alleanza tra uomini (contratto sociale) e/o tra l’uomo e Dio (patto Uomo/Dio) riconosce [imponendoli (come valori non negoziabili atemporali poiché corrispondenti a verità obiettive, o soggettivamente assolutizzate, universali ed uguali per tutti) o suggerendoli] come necessari per il perfezionamento del patto.

        [18] E’ l’azione imperante della coscienza: il valutare. Ma qui si vuole accostare tale termine al concetto più specifico di Discernimento [“Capacità di valutare i termini di una questione, i caratteri di una situazione, così da poter operare scelte corrette, oculate. SIN: buon senso, criterio, giudizio (cerca in “il Sabatini Coletti”, dizionario della lingua italiana)]. Il discernimento può seguire un approccio critico o un approccio costruttivo. Nel primo caso si inizia dalla conoscenza di un’azione (o pensiero) e la si analizza punto per punto separando gli aspetti positivi da quelli negativi. L’approccio costruttivo inizia sempre dalla conoscenza dell’azione (o pensiero) e dal suo frazionamento, dopo di che si pongono gli elementi positivi come input per un comportamento (o pensiero) nuovo e di maggior valore positivo. Quindi, il discernimento critico ha natura statica e immutabile; mentre il discernimento costruttivo ha una natura dinamica proiettata verso una futura e successiva azione (o pensiero).

        [19] Si vuole sottolineare come ci sia una netta differenza tra l’approccio paternalistico di bene [(o benessere) soggettivo e personalizzato (egoisticamente mirato)] per la persona e quello di Bene [oggettivo e assoluto] della Persona.

        [19bis] E’ l’azione giudicata “giusta. Seguendo B. Russell, possiamo distinguere tra un giudizio oggettivo e un giudizio soggettivo. L’azione giudicata oggettivamente giusta (cioè, FARE il BENE) in qualsiasi circostanza è quell’azione che, fra tutte quelle che sono possibili, ci dà, quando si sia tenuto conto di tutte le informazioni a disposizione, la massima aspettativa di probabili “buoni effetti”, o la minima aspettativa di probabili “effetti nocivi”, secondo il principio di causalità [concezione utilitaristica di causa-effetto: questa definizione implica che dietro ad ogni azione ci sia una motivazione (causa di volizione) che si ritiene giusta e che spinge ad agire (esempio: per risorgere bisogna prima morire; ma anche, i comportamenti devianti e “cattivi” giustificati dalla ragione di stato)]. L’azione giudicata soggettivamente giusta, o azione morale, è quella che l’individuo giudicherà da sé “oggettivamente giusta” se avrà dedicato alla questione un’idonea quantità di pensiero (azione ragionata secondo un proprio schema di riferimento di norme che considera giuste a priori, e secondo una propria scala di valori), ovvero se, prevalendo “il sentimento di spontaneità”, l’avrà intesa come “buona” d’impulso (azione istintiva) [questa seconda definizione non implica un giudizio sull’effetto dell’azione, ma limita il giudizio all’azione stessa]. [fonte: B. Russell, Determinismo e morale, 1908].

        [20] E’ la corresponsabilità fatta propria dall’individuo tra i diritti “pretesi” e doveri “onorati”, e le loro conseguenze. Questo implica la costante autoverifica della fedeltà a sé stessi e alla propria coscienza, regola che vale anche in rapporto ai potenziali comportamenti futuri.

        [21] La parola lessicografico significa “ordine di precedenza assoluto” [come l’ordine dell’alfabeto di un vocabolario (lessico)]. Sulla prevalenza dei valori sugli interessi si possono fare due ipotesi: la prima è che i valori prevalgano per considerazioni di intensità; la seconda ipotesi è che essi prevalgano sugli interessi, non per il livello delle intensità, ma per ragioni lessicografiche, cioè perché hanno precedenza assoluta [cerca in “La logica della scelta collettiva”, Martelli; e anche “Preference and urgency” T.M. Scanlon, in Journal of Philosophy, 1975]. Qui si è scelta la seconda ipotesi.

        [22] La Virtù, s. f. [dal latino virtus-ūtis «forza, coraggio»], può essere definita in diversi modi. Può essere definita come [tratto da: http://www.treccani.it/vocabolario/virtu/]:

  • una “disposizione naturale a fuggire il male e fare il bene, perseguito questo come fine a sé stesso, fuori da ogni considerazione di premio o castigo; nella teologia cattolica, abito operativo per cui si vive rettamente: educare alla v.; amare, praticare, esercitare la v.; seguire la via della v. (opposta alla via del vizio); essere modello, esempio di v., un fiore di v.”;
  • ovvero, il suo significato può essere caratterizzato “secondo l’oggetto a cui esse sono dirette possono distinguersi varie virtù, cioè varie disposizioni d’animo volte naturalmente al bene. La teologia cattolica distingue le virtù in v. intellettuali e v. morali: le prime perfezionano l’intelletto, le seconde orientano la volontà al bene; distingue inoltre v. naturali (o acquisite), cioè acquistate con l’esercizio di atti buoni, e v. infuse, che sono effetto dell’operazione di Dio nell’uomo. Nelle virtù infuse rientrano (secondo l’opinione della maggior parte dei teologi) sia le v. teologali, che hanno Dio per oggetto formale, sia le v. morali (distinte dalle virtù morali sopra ricordate), che hanno per oggetto formale qualcosa di distinto da Dio; le virtù teologali sono tre: fede, speranza, carità; tra le virtù morali le principali (v. cardinali) sono quattro: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Per la v. eroica, sempre nella teologia cattolica, v. eroico. Nell’uso com. si parla anche di v. civili, militari, domestiche, ecc.; e precisando con un compl.: la v. dell’onestà, della modestia, della carità, dell’umiltà, ecc. Per estens., di qualsiasi buona disposizione o qualità: la v. della discrezione, della rassegnazione, ecc.; fare di necessità v., frase prov., adattarsi alle necessità; una ragazza che ha molte v., molte buone qualità, molti pregi (e assol., riferito a donne, per indicarne la castità, la purezza, l’onestà: sulla v. di quella donna non c’è niente da obiettare; anche in tono scherz.: insidiare la v. di una ragazza)”;
  • e ancora, “nell’uso letter., con sign. più vicino a quello del lat. virtus, per indicare la forza consapevole e perseverante per cui l’individuo opera al conseguimento di un fine, resistendo alle avversità della fortuna”.

        [23] Deve trovare piena realizzazione anche quando tale virtù è contraria ai propri interessi utilitaristici, a prescindere dall’opportunistico consenso esterno.

        [24] Il Primato della Coscienza si realizza quando l’Uomo si “fida” e si “affida” ad essa, percependo che sia la giusta decisione.

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